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Verso The City By The Bay

Sto per partire per San Francisco.
Solo un bagaglio a mano. Si viaggia leggeri.
Destinazione, una delle piu’ importanti web conferences americane.
Ci saranno guru, giornalisti ed imprenditori di ogni parte del mondo.
Ci sara’ il futuro del web: idee e persone che davvero non vedo l’ora di scoprire.
Un volo da Sydney a San Francisco.
Una stanza in un albergo della terza strada.
Il resto a dopo.
Ora scrivo dall’aero: poche ora di sonno alle spalle e un sedile accanto al corridoio -per fortuna, non sopporto essere intrappolata.
Accanto a me c’e’ una coppia di signori giapponesi. Parlano poco.
Sto per vivere un momento che potrebbe dare una svolta alla mia carriera, non si tratta solo di un evento: si tratta di incontri, di contatti, di essere introdotti nel giro di Silicon Valley e del lancio del prodotto a cui ho lavorato per quasi un anno, ormai.

Ho poca fame, bevo un gin-tonic. Si’, decisamente ci vuole un gin-tonic: ha un sapore che non sentivo da tempo. E’ da Parigi che non ne bevo uno.
L’ultimo era appoggiato sul mio parquet, un po’ boheme, molto Manet.
Sono stata talmente concentrata e sommersa di cose da fare, negli ultimi giorni, che compilare i documenti per la dogana e’ un diversivo quasi divertente. Di solito detesto i documenti per la dogana.

I film non mi interessano, a leggere non riesco e ho ore di sonno arretrato.
Ho tutto quel che serve per dormire, questa volta: mascherina per gli occhi, cuscino da viaggio – uno di quelli veri, altro che quelle schifezzine gonfiabili e poi ho sonno. Tantissimo sonno.
Gli schiamazzi della signora giapponese – si’, i japo hanno iniziato a parlare – non mi destano piu’ di tanto, mi alzo una decina di volte per farla passare, nel dormiveglia, poi mi riaccoccolo in qualche sogno leggero.

Sfoglio la rivista di bordo, non ci faccio mai molto caso, ma e’ un piccolo rito.
Pagina 59 ha due foto che mi piacciono: Philips ha fatto un paio di nuovi brillantosissimi auricolari ed una chicchissima chiave USB in collaborazione con Swarovsky. La collezione si chiama Active Crystals e sta lanciando adesso.
Sapevo che era la tendenza.
Ne avevo parlato l’anno scorso ad un’amica orefice, purtroppo un po’ al di fuori del campo per rendersi conto di quanto la tecnologia sia presente nella nostra vita e del fatto che la moda non possa piu’ prescinderne.

Se cambiassi lavoro, mi piacerebbe essere product manager per oggetti Tec-chic. Una nicchia, certo, ma neanche cosi’ tanto.
Le donne stanno avanzando, nel campo tecnologico. Ce ne sono sempre di piu’ che si interessano, scrivono e progettano per il web. C’e’ bisogno di oggettini carini.
In ogni caso, avevo sognato una chiave USB gioello, non tanto per stravaganza, ma perche’ negli ultimi anni, la USB e’ stata la cosa che ho messo al collo piu’ spesso. E allora perche’ non renderla graziosa?

Ho chiesto alla hostess di dare un’occhiata, Swarowsky e’ maestra nel packaging. Peccato che, mente marchettara come sono, debba sempre analizzare il rapporto valore aggiunto/costo aggiunto e non mi possa godere in pace lo spettacolo.
Mi sono fatta un regalo.
Mi sono regalata quella fantastica chiave USB a forma di cuore tempestato di cristalli.
il cuore si apre eeeee….tac: appare la chiavina.

Memoria USB Active Crystals. Philips - Swarovski

Memoria USB Active Crystals. Philips - Swarovski

Ora, siete pronti, vero? Pronti alla lista di motivi plausibilissimi che una donna sa addurre per giustificare un acquisto completamente inutile ed altrettanto irresistibile?
La parte razionale di me mi diceva: le chiavi USB sono sorpassate, ormai si salva tutto online con Google Docs ecc. E 1 giga non e’ tanto per niente. Si compra un hard disc esterno da 500 giga per lo stesso prezzo.

Ma la parte irrazionale ha avuto la meglio e moooolte piu’ argomentazioni:

1. Rappresenta il mio mestiere
2. E allo stesso tempo il mio stile
3. E’ a forma di cuore, io ho una collezione, nata per caso, di ciondoli a forma di cuore
4. E poi e’ romantica. Pensate alle favole: nel ciondolo si nascondevano prove d’amore, pozioni magiche, biglietti segreti. Si apriva un anello o un ciondolo a forma di cuore e la storia cambiava direzione. Ora, il ciondolo che si apre svela una chiave USB.
5. Ecc.

Dopo 14 oro di volo abbondanti, sono a San Francisco. Scendo, passo la dogana. Il ragazzo che prende le impronte viene dalla isole Guam e mi fa un sacco di domande sui viaggi in Egitto ed in Polinesia. E’appassionato di diving e so che vorrebbe potermi chiedere il tesserino del PADI, ma niente, non e’ il caso, passaporto e procedura di rito. Poi la valigia.
Il tempo trascorso in fila per la registrazione, all’ingresso statunitense, mi fa arrivare in perfetto timing per recuperare il mio trolley. Hop e si esce.

Fa sempre un po’ di effetto, quando non c’e’ nessuno ad aspettarti all’aeroporto. Uhm. A dire il vero fa effetto anche quando qualcuno c’e’. Forse sono gli aeroporti a fare effetto, nodi tra intervalli spaziotemporali incredibili. Dates-line che si attraversano, giorni che si allungano, altri che spariscono, notti di chi e di che e di dove e l’attesa, fermi immobili, come in qualche macchina spaziale a farsi trasportare all’altro capo del mondo.

“Welcome to San Francisco” recitano i graffiti sui muri. Welcome? Io? – Grazie.

A Sydney, cercavo un posto in cui stampare una pagina di brochure, l’ultima fatta da Nicole, che non e’ arrivata in tempo per essere finita con il resto. Lo trovo qui: un bel negozietto che fa proprio al caso mio, con un ragazzo gentile, un po’ americano, un po’ greco che sembra contento di fare quello che fa.

In un paio di minuti ho il mio foglio stampato e qualche centinaio di dollari americani nella borsa.

Bart.
Bisogna cercare il Bart: il trenino che collega l’aeroporto di San Francisco con il centro della citta’.
Ottimo: la scala e’ mobile e la Pri non e’ costretta a soccombere sotto i 13 kg che e’ riuscita ad infilare in un bagaglio formato cabina.
So viaggiare con poco. Me la cavo con un paio di pezzi di guardaroba, se e’ il caso. Ma la mia specialita’ e’ viaggiare in poco spazio. Ovvero riuscire a stivare in borse minuscole quantita’ inimmaginabili di vestiti ed infinite paia di scarpe. Il rapporto tra massa, densita’ e volume e’ l’unico rimasuglio di fisica che mi rimane dal liceo e lo sfrutto al massimo. Aiuta portare taglie piccole.

Sono, finalmente, in albergo, ho gia’ la connessione ad internet e la valigia in camera.
Il Westin Market Street e’ un elegante grattacielo al numero 50 della terza strada, praticamente all’incrocio tra Third e Market (da cui il nome).
Sono ad un paio di blocchi dall’Imbarcadero e dal Bay Bridge e la mia finestra si affaccia, dal ventitreesimo piano, su tutta la citta’.

Sono le undici e trenta del mattino e inizio a vedere i miei messaggi.
Aver scritto su Facebook che sarei venuta a San Francisco mi ha procurato una marea di pseudo-appuntamenti.
Cerchero’ di vedere Alexandre e Elodie.

Alexandre e’ un ingegnere di Apple, lavora all’iPhone. Ci siamo incontrati poco piu’ di un anno fa su di un treno Parigi Venezia. Io all’inizio ero stata ipnotizzata dal telefono magico non ancora in commercio con cui giocava. Poi ho anche capito che era un ragazzo simpatico. E’ diventato mio amico, quando ha recuperato il libro di Simone de Beauvoir che avevo dimenticato nel vagone e me lo ha praticamnete lanciato dal finestrino.

Elodie e’ una compagna dei tempi della Sorbona, ora vive a Londra, dove lavora per Amex ed e’ di passaggio, come me, a San Francisco, per qualche giorno.
Il resto sara’ lavoro, lavoro, lavoro.

Il boss mi ha appena scritto che e’ arrivato in albergo anche lui: la sua stanza e’ al ventiseiesimo piano. Lo raggiungero’ nel tardo pomeriggio per organizzare la conferenza di domani.
Ora doccia e due passi in citta’.